L’operazione del ministro degli esteri Luigi Di Maio è da valutare sotto molti aspetti e non liquidabile come una semplice scaramuccia di potere. Se da un lato è certamente vero che vi era un problema sul secondo mandato e sulle poltrone da cui è sempre difficile staccarsi, è altrettanto vero che Giuseppe Conte da quando è diventato leader del Movimento è quasi irriconoscibile. Ha ragione Di Maio quando parla di ricerca continua della visibilità, di polemiche sterili in un momento difficile e delicato per il paese e di attacchi personali all’interno del Movimento che non si erano mai visti prima. Nei Cinque Stelle si è aperta una contesa sulla guida politica che parte da posizioni politiche diverse, in larghissima parte accentuate dalla smania di protagonismo dell’ex presidente del consiglio. Quella dell’invio delle armi in Ucraina che cos’è, se non il cavallo di troia per farsi notare e creare problemi al governo partendo da posizioni antimilitariste ormai anacronistiche anche per i più irriducibili tra i pentastellati? Ne è la dimostrazione il gran numero di eletti che seguirà Di Maio, molti dei quali ancora al primo mandato. Detto questo è evidente che la coerenza è una cosa che il buon Giggino non sa nemmeno cosa sia. Ma non perché non si dimette adesso, dopo aver abbandonato il gruppo che lo ha eletto. Questa è solo l’ultima delle giravolte, basti pensare alla richiesta di impeachment per Mattarella e alle posizioni su UE e moneta unica.
Niente di nuovo sul fronte della politica improvvisata, fatta da chi si ritrova catapultato in parlamento e avrebbe a malapena le capacità di fare (forse) il consigliere comunale.