Cosa rimane oggi della rivoluzione del 2011 in Egitto: la stessa che spodestò in 18 giorni “lo zio di Ruby Rubacuori” (in prosieguo, Mubarak), la stessa che sopportò le violenze delle Fratellanza Mussulmana e tornò in strada per porre fine al governo Morsi?
Per far fallire una rivoluzione bisogna dividerla, polarizzarla. Vale con le rivoluzioni come vale per qualsiasi tipo di potere organizzato: Divide ut imperat. La gioventù di Tahrir, quella moltitudine che nel 2011 era un blocco omogeneo e quindi vincente, venne polarizzata in due campi contrapposti dopo i massacri dello scorso agosto, attuati dall’esercito contro i militanti pro Morsi.
Così, dentro e fuori dalle università, una fetta degli studenti cercava di conservare la propria visibilità mentre un’ altra parte consistente era scomparsa. Il movimento giovanile di rivolta che il 30 giugno 2013 raccolse decine di milioni di firme per far dimettere Morsi, che fine aveva fatto?
E’ impossibile credere che i giovani che subirono violenze, colpiti a sangue dai militari durante il dopo Morsi, potessero premere per una nuova costituzione che avrebbe di fatto riconsegnato il loro paese nelle mani dell’esercito. Solo due anni possono cancellare ‘sì aspre ferite?
L’impressione è che alcuni tra i più importanti esponenti si siano alla fine consegnati al regime, fornendo un appoggio dei più giovani che serviva per legittimare le decisioni e il nuovo potere. I giovani insomma sono stati usati dall’esercito e hanno perso, così, ogni credibilità agli occhi dei rivoluzionari, non appena sono stati cooptati negli organismi militari. Quindi la tecnica del “divide ut imperat” ha spezzato il fronte della gioventù e questa delegittimaizione ne ha dimezzato la forza.
L’esercito poi ha fatto costruire monumenti dell’ipocrisia, monumenti ai martiri della rivoluzione.
A Tahrir fece erigere un altare ai martiri della rivoluzione (evitando di ricordare di essere stato egli stesso tra i loro carnefici), e a piazza Rabaa al-Adawiya, davanti alla Moschea teatro dei massacri, fece posare il monumento che vediamo nella foto a sinistra. Due braccia di marmo (esercito e polizia) che sorreggono il mondo (che rappresenta il popolo) infangando così la memoria del peggiore massacro che l’Egitto abbia conosciuto in tempi moderni.
Questo è il piano diabolico del regime, confondere le acque, infangare la memoria e creare confusione nella Storia. Nessuno ha capito bene cosa sia successo in Egitto e cosa stia succedendo e dalle dichiarazioni che si sentono, nemmeno gli addetti ai lavori. Le informazioni sono discordanti, spesso contorte e contraddittorie.
E’ bene fare ordine. La nuova ondata di violenze rischia di ricompattare una generazione per lungo tempo spaccata in due. Un numero sempre maggiore di studenti di altri gruppi politici sta ora confluendo all’interno di un fronte studentesco riunito, contrapposto al regime dei militari. I nodi come sempre vengono al pettine.
Stando alle parole di un portavoce degli “Studenti contro il colpo di Stato”, il progetto è quello “di far rivivere l’esperienza del 2011”.
Noi da parte nostra osserveremo con attenzione gli avvenimenti futuri essendo portati, per indole, a parteggiare per i rivoluzionari, perché crediamo che i militari non debbano occuparsi di politica. Tuttavia il futuro dell’attivismo politico dei giovani egiziani dipenderà dai gruppi che riusciranno a sdoganarsi dal dualismo forzato, sempre tipico di una propaganda totalitaria. Speriamo possano riprodurre quello spazio intellettuale che, per 18 giorni almeno, aveva concesso agli egiziani e alla comunità internazionale di reimmaginare un Egitto e, mi si conceda, anche un Medioriente nuovi, moderni e orientati al futuro.