La gravità di quello che è successo a Washington, con l’assalto al Congresso americano, è fuori discussione; anche gli ultimi attori internazionali, strenui difensori del presidente Trump, lo hanno criticato, seppur delicatamente. Trump esce di scena da eversore. Incitare la folla a marciare verso il congresso è un atto eversivo. Probabilmente, nemmeno lui avrebbe mai pensato che poi la manifestazione sarebbe trascesa fino al punto di forzare l’ingresso del Campidoglio. Abbiamo visto transenne divelte all’avanzata dei manifestanti. Forse il punto più basso della democrazia americana. D’altra parte se inviti a cena Jake Angeli di QAnon non puoi pretendere che sappia usare forchetta e coltello, al tavolo della democrazia. Il danno reputazionale, subìto dal paese che va a insegnare la democrazia al mondo, sarà difficilmente sanabile come difficilmente sanabile sarà la rottura nel paese. I contestatori erano pochi, ma non è chiaro il numero dei cittadini che, seppur non disposti a manifestazioni eversive di tale gravità, sono comunque d’accordo e simpatizzano per quello che è successo. Biden, dal 29 gennaio, avrà un compito difficile: chiudere il capitolo Trump con mano decisa ma con moderazione in modo da non causare le rivolte dei trumpisti. Potrebbe rivelarsi il presidente giusto al momento giusto per fare questa operazione rinsaldatura del tessuto popolare, così profondamente spaccato.
Forzare la mano potrebbe fare prevalere i separatismi interni, con parti del territorio e della società, emancipati dal controllo del governo federale, che si radicalizzeranno coltivando le proprie rivendicazioni contro il “grande complotto” e addestrando le proprie milizie.
Per formazione tendiamo a considerare di più gli aspetti internazionali che non sono meno gravi. La potenza egemone del pianeta, e la nostra, da italiani, di riferimento è in crisi. Il problema è dunque anche e soprattutto nostro. Se Pechino, Mosca e Teheran festeggiano, potrebbero farlo per poco perché un mondo instabile, dagli imprevisti risvolti strategici, che mette a rischio la pace non fa gola a nessuno. Né si può escludere che per ricompattare la nazione e rinsaldare il primato nel mondo alcuni poteri americani siano disposti a scatenare una guerra, breve e vittoriosa, che punisca almeno uno fra i tre supernemici. Di sicuro l’imprevedibilità degli Stati Uniti destabilizza il sistema delle cosiddette relazioni internazionali, già in tensione per l’ epidemia globale.
Questo lo sanno anche se, oggi, non hanno potuto fare ameno di togliersi lo sfizio di ricordare che d’ora in poi per gli USA sarà piuttosto arduo impartire lezioni di democrazia ed efficienza istituzionale al resto del pianeta.
La potenza di ogni impero si misura dalle condizioni del centro, non da quelle della periferia. I rapporti tra i piccoli stati sotto la determinante influenza americana potrebbero mutare spingendoli a rivendicare più autonomia mentre le relazioni con quelli più grandi potrebbero veder sfavoriti gli USA in una nuova determinazione dei rapporti. La storia delle relazioni internazionali sarebbe dovuta finire nel 1989 con il crollo del muro di Berlino, secondo il politologo Francis Fukuyama. Crediamo invece che la parte più interessante arrivi adesso.